
di Hili Carmon
(da L’Osservatore Romano)
C’è un posto a Gerusalemme che è icona di ciò che vorremmo Gerusalemme potesse essere. Città di pace, di dialogo, di gioia. È il Cafè Sira, luogo di ritrovo di molti giovani. Ebrei, arabi ma anche molti stranieri. Situato nel cuore della città, nel vicolo di via Ben Sira (l’autore del Libro biblico Siracide), è il bar dove ci si incontra di pomeriggio e di sera per parlare di scuola, di amori, ma anche di calcio e soprattutto di politica.
Il Cafè Sira è anche il punto di riferimento di tutti i tifosi dell’Hapoel Yerushalayim, la squadra gerosolimitana, che si identifica politicamente con gli ideali di pace, convivenza, laicità e tolleranza della sinistra israeliana. Questa è anche la squadra per la quale tifava Hersh Goldberg-Polin, l’ostaggio israelo-americano di soli ventitré anni, ucciso brutalmente da Hamas, dopo 331 giorni di prigionia a Gaza, la cui madre Rachel ha rappresentato uno dei visi simbolo della tragedia di questi 18 mesi di guerra. Il Sira era il suo bar. Era lì che si incontrava con gli amici prima di andare alla partita dell’Hapoel, era lì che dialogava di politica, del futuro della società israeliana, ed era lì che sognava di partire in viaggio per conoscere nuove persone e scoprire culture diverse.
Al Cafè si sente ancora la sua presenza. Quando, il 7 ottobre, sono state trasmesse le immagini del suo rapimento, i tifosi dell’Hapoel si sono uniti come una grande famiglia per richiedere il suo rilascio. Hanno attaccato la sua foto al bar e in ogni angolo di Gerusalemme. Sono andati a tutte le manifestazioni, urlando: «Vogliamo l’Iska (accordo, in ebraico) subito!». E hanno iniziato ogni partita, ricordando il suo nome. Ho ancora le immagini vivide nella mia mente di Hersh, portato via a Gaza su una camionetta, dopo aver perso un braccio, a causa di una granata lanciata da Hamas nel rifugio, dove aveva trovato riparo assieme ai suoi amici.
Fra questi c’era Aner Shapira, ucciso da un’esplosione, mentre stava trasportando una bomba a mano fuori dal bunker per salvare la vita di altri giovani. Anche Aner frequentava il Cafè Sira. E adesso sui muri del bar, pieni di adesivi contro il razzismo e il fascismo, sono entrambi ricordati con i loro ritratti e graffiti del loro nome.
Qui i frequentatori più assidui sono i membri della “Brigada Malcha”, i tifosi dell’Hapoel. Una parte bella della gioventù israeliana. Sono quelli che nella loro cameretta hanno, come Hersh, la scritta «Gerusalemme appartiene a tutti» con i colori identificativi, rosso e nero, della squadra. Sono coloro che vanno alle manifestazioni per la liberazione degli ostaggi al grido di «democrazia». Quel 7 ottobre, Hamas ha ucciso e massacrato la crema di questa società. Al funerale di Hersh c’era tutta la “Brigada Malcha” e c’erano anche i giocatori dell’Hapoel.
In quel pomeriggio soleggiato e ventoso, hanno intonato, quasi sussurrandolo, l’inno della squadra, cambiandone però le parole: «Senza di te, Hersh, non sappiamo come andare avanti». Durante tutto il funerale, non c’è stata mai una parola di odio o di vendetta, perché Hersh era il figlio «della luce, dell’amore e della pace», come ha sempre ricordato sua madre Rachel.
Sono queste parole che risuonano forti al Cafè Sira, dove tutto il mosaico etnico e religioso di Israele è presente. Ai tavolini di legno del bar, si sente parlare l’ebraico, l’arabo, l’armeno, l’inglese. Anche alcuni professori di questi ragazzi sono assidui frequentatori del locale, soprattutto la sera, quando si trasforma in pub. Lì si può fare amicizia con scrittori arabi, con i quali si parla di politica, e si immagina insieme un futuro senza odio. Come scriveva Aner, in un testo delle sue canzoni: «Combatto contro l’odio fraterno».
Il Cafè Sira, infatti, non è un luogo dove si va solamente a bere una birra (ora ce n’è una dedicata a Hersh) o un “chai masala”, ma dove si dialoga, si sogna, si ascolta musica e si incontrano persone con diversi background culturali e sociali. È, per i giovani gerosolimitani, il luogo immune dalla violenza e dal rancore di cui si nutrono i telegiornali. Siamo seduti a un tavolino all’interno del Cafè Sira. Dietro di noi c’è una coppia che sta programmando una visita al giardino botanico. Alla sinistra, invece, ci sono dei ragazzi, che sono venuti a studiare con il laptop e alcuni libri. Fra questi, vedo sbucare da una borsa L’Alchimista di Paulo Coelho e La ricerca di significato dell’uomo di Viktor Frankl.
Lo scorso febbraio, l’ostaggio Or Levy è stato liberato dopo 491 duri giorni di prigionia. Una delle sue prime domande, dopo la liberazione, è stata: «Dove è Hersh?». Erano stati insieme per un periodo nei tunnel di Gaza, e Hersh, per dargli forza, gli aveva detto: «He who has a why can bear with any how» (ovvero, Chi ha un perché può sopportare qualsiasi come). Questa frase di Friedrich Nietzsche è ripetuta da Frankl, che aveva vissuto l’orrore dell’Olocausto, nel suo libro, e oggi queste stesse parole sono tatuate nel braccio di Or.
Immagino che il “perché” di Hersh nel riuscire a sopportare la fame, la violenza e il dolore fossero la sua famiglia, i suoi amici, i compagni della “Brigada Malcha”, e forse anche quei dopocena al Cafè Sira trascorsi a chiacchierare, a sognare e a sperare un mondo migliore nelle lunghe notti estive, che avevano preceduto quel drammatico 7 ottobre.
Il logo del Cafè è un’imbarcazione a vela. In ebraico, infatti, “sira” significa “barca”, che simboleggia la vita umana che ondeggia tra le incertezze del mondo. Il Cafè Sira è però per i giovani di Gerusalemme più un’ancora di speranza, che non significa ottimismo, ma qualcosa che affonda le sue radici nella convinzione che ci sia ancora del buono per cui valga la pena impegnarsi. «Spero, dunque sono», dice non a caso un adesivo su un muro del Cafè Sira di Gerusalemme.
(da L’Osservatore Romano)